Di societing e marchi

 


Se un tempo sedersi con qualcuno a tavola simboleggiava accettazione e vicinanza, oggi gli impegni (la “vita di fretta” di Zygmunt Bauman) hanno sovente polverizzato le convivialità domestiche e i valori del cibo, e perciò aperto un varco ai prodotti più chimici, artificiali, manipolati, an-identitari, global ma per nulla o ben poco glocal... Duole ammetterlo, e suona paradossale, tanto più in Italia, ma non sarebbe mai potuto avvenire in una società che davvero diffusamente custodisse nitide ideologie circa i propri cibi e le tradizioni per ben avvicinarli. Per G. Richards e A. M. Hjalager, che indagarono i nessi fra turismo e gastronomia già in un prezioso lavoro del 2002, a produrre la nuova consapevolezza del cibo quale manifestazione dell’interiorità di un soggetto è stato, prevalentemente, proprio il montante senso di precarietà individuale e collettiva in cui è affondato il consumatore odierno, spaesato a causa dello sgretolamento (delle consuetudini, e delle impalcature di significato radicatesi nei secoli) indotto dalle irrefrenate derive della mondializzazione.

In particolare quindi, com’è stato scritto, “per ciò che riguarda i nuovi approcci di marketing, la ricerca è sempre più orientata all’esplorazione delle nuove frontiere del Societing, secondo la definizione che ne danno Bernard Cova e Giampaolo Fabris. Bernard Cova evidenzia come sia in atto un ripiegamento del modello individualista, che mette l’accento su un ritorno al legame sociale nelle società occidentali e al desiderio di partecipare a comunità diverse. Il Societing, declinato in chiave turistica, cerca di contribuire al rafforzamento del vincolo sociale tra viaggiatore e ospitante, ma anche tra i viaggiatori stessi, con la formazione ad esempio di circoli/club di viaggiatori. In questa logica si tratta di conciliare lo sviluppo del turismo con la tutela dell'ambiente ed il rispetto dell'identità della storia e della cultura delle popolazioni locali e del loro territorio ma, anche, di proporre nuovi mezzi e luoghi coniugati con modalità d’intervento che preservano e non dilapidano le risorse locali, generando benefici economici, sociali e culturali per tutta la comunità.

Si tratta ovviamente di questioni (e opportunità) cogenti, che chiamano in causa l’amministratore, il cittadino, l’impresa, il manager turistico, l’industria alimentare.

Chi scrive ha condotto in passato anche un’analisi dei marchi e delle certificazioni ambientali (i più diffusi), e del loro “utilizzo” anche come strumenti – diretti o indiretti - di marketing turistico. L’utilizzo dei marchi nasce – come noto - per elevare, tramite sistemi procedurali, gli standard di qualità delle destinazioni e delle imprese ospitali, e per “divulgare” i risultati conseguiti, affinché il mainstreaming dissemini sensibilizzazione presso i vari attori e destinatari in gioco. L’assegnazione/utilizzo dei marchi è però sovente “afflitta” da alcuni limiti che ne attenuano i benefici. Prima di tutto l’eccessiva proliferazione (si pensi all’esistenza d’oltre 50 marchi solo in Europa), talora legata alla sbagliata concezione del marchio come mero veicolo di immediati vantaggi economici – là dove l’ottica corretta è viceversa quella dei risultati sul medio-lungo periodo - . Non solo, l’eccessiva proliferazione ha come immediata conseguenza il disorientamento del turista, che non riesce più a decifrare le vere differenze qualitative fra l’uno e gli altri, e addirittura può tendere a dimenticarli tutti, senza veramente giungere a distinzioni in termini di serietà e affidabilità (l’iniziativa comunitaria “Visit”, anni fa, si è proprio prefissa di porre un po’ d’ordine nell’intricato panorama). Al contempo, è necessario che i marchi siano pensati in modo tale da rappresentare un numero significativo di imprese. Così come è possibile trovare sui territori esempi di nutrita presenza di marchi, altrettanto possiamo trovare marchi che non raggiungono una massa critica, o che “scolorano” col passare del tempo. Infine, i costi d’istruttoria e di mantenimento non debbono risultare troppo onerosi e scoraggianti per le imprese aderenti.

Umberto Curti, BioVoci

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