Da Apricale al Mediterraneo, una "dieta" UNESCO

 

marò di fave



Risale al 2010 il riconoscimento UNESCO alla “dieta mediterranea” come patrimonio immateriale dell’umanità. Ovvero? Ovvero l’UNESCO “omaggia” quello straordinario dialogo culinario tra comunità lungo le sponde di un mare che, sin dal tempo antico, malgrado tutto, unisce anziché dividere. Ed uno dei suoi cantori, il famoso romanziere napoletano Raffaele La Capria, è mancato centenario nel 2022 dopo aver addirittura scritto che (vado a memoria…) “v’è più storia in un’onda del Mediterraneo che in tutti gli oceani messi insieme”.

Morì centenario anche Ancel Keys, il “dietologo” statunitense che con la moglie si trasferì a Pollica nel Cilento, che colse la profonda identità di quei luoghi, e al quale dobbiamo la famosa piramide di consigli alimentari… Spero che di costoro si parli sovente nelle scuole, per costruire un domani di conoscenza e rispetto, e di Fernand Braudel, e di Predrag Matvejevic, e di Libereso Guglielmi, e di Francesco Biamonti, e di Rubaldo Merello…

Che siano storici, botanici, romanzieri o pittori, costoro “incidono” un segno + dentro di noi.

Ed il loro e nostro Mediterraneo fa capolino nell’atmosfera dei porti e porticcioli (Camogli, Calvi, Marsala...), coi fari e le capitanerie, nell’addolcirsi dell’architettura sui profili delle coste, nei concreti saperi della cultura della vita, dell’olivo, dei cereali, e la religione, i monasteri, le antiche biblioteche, le saline, il preziosissimo corallo, i colori degli abiti, gli arredi, le tracce permanenti della civiltà araba e di quella ebraica, i destini e le storie “nascosti” nei portolani e nelle lingue scomparse, o che cambiano lentamente nel tempo e nello spazio, i mercanti, le migrazioni di pesci e popoli, le leggende, le ricette…

Le ricette: non si tratta peraltro, a tavola, di demonizzare il burro e la carne, v’è chi continuerà a cibarsene, e sulle sponde del Mediterraneo possedere una mucca, un maiale, o qualche capra ha lungamente costituito un lusso. Si tratta di privilegiare un ricettario che sa essere policromo, profumato, “evergreen” nella sua modernità, sagace nelle sue frugalità. Un ricettario che non a caso – nelle sue migliori declinazioni – sciorina verdure e pescato, filiere brevi, cotture non invasive, olii extravergine (l’Italia detiene ovviamente il record di cultivar olearie)… Dunque, fiero avversario dei consumi distratti, del cibo da distributori automatici, degli additivi, delle mutagenesi.

Sovente, dato il mio lavoro, mi domandano in particolare ricette della tradizione ligure, del buonessere, ed io penso subito al pesce azzurro, al paté d'olive, alla capponadda e ai condigiun, a focaccia e farinata (cibi quasi monoingrediente, da mangiar per strada ungendosi le dita…), alle salse da mortaio forti d'aglio, a mes-ciùa e minestrone, allo zimino di ceci e bietole, allo stoccafisso bollito che ci regalarono le Lofoten, alla torta stroscia di Pietrabruna… E cosa verseremo in abbinamento nei calici? Vini via via sempre più puliti e meno solfitati.

Sia come sia, per quest'incontro su BioVoci, vi suggerisco la lettura di Francesco Biamonti, “L’angelo di Avrigue”, ed. Einaudi, Torino, 1983 (e mi si permetta un’anticipazione: Avrigue potrebbe essere Apricale, il bellissimo borgo ponentino “apricus”, ovvero soleggiato, un borgo che avrebbe il solo difetto di non traguardare il mare. E così versifica Claudio Nobbio: "Dio pagano che abiti qui / tu che controlli i rintocchi delle campane / tu che governi il crescere dell'erba / nelle fasce a terrazze / della Liguria più nascosta / tu che leggi negli occhi delle volpi di notte / Che cavaliere sono io / se ho perso tanto tempo / prima di entrare nel profondo del cuore / della valle del Nervia").

Prosit!
Umberto Curti

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