A come architettura, A come antropologia
L’antropologo Andrea Staid
(Milano, 1982) ha di recente dato alle stampe di UTET “Dare forme al mondo”, un
saggio – qui e là dall’afflato poetico - che per così dire completa una
trilogia lunga 10 anni di ricerche e lavoro. Instancabile viaggiatore “dalla
Sardegna alla Mongolia”, in queste sue recentissime, dense pagine Staid propone
letteralmente di cambiare le nostre quotidianità, rivolgendosi anzitutto, per
così dire, agli abitanti delle città, stretti dentro condominii che sono sempre
meno comunità, e assediati da cemento, traffico e rumori che d’estate inducono
fughe - per non dire reclusioni - verso l’aria condizionata… Cambiare le quotidianità
significa cambiare le modalità in cui abitiamo il mondo, modalità non più
sostenibili. Una globalizzazione tesa al profitto ad ogni costo, e la
superficialità di tanti nostri comportamenti (ad es. l’ostinazione delle code
in auto nei weekend e degli sprechi in primis energetici…), vanno palesemente
distruggendo il Pianeta, ci estinguono. Ma poiché tutto oggi è interconnesso,
tutto può dunque giovare o viceversa nuocere agli ecosistemi e alle forme di
vita (anche animali e vegetali). Natura significa relazione. Ma l’economia
occidentale propone sovente una relazione tossica sia con la natura sia con le
altre culture. Un antropocentrismo connotato da climate change, guerre,
disparità sociali ecc. impedisce l’ecocentrismo. Staid, ancora giovane
anagraficamente, sottolinea come le nuove generazioni abbiano diritto al rispetto,
a “futuri condivisi”, e “Dare forme al mondo” – ricco di suggestioni e vettore
di utili domande – getta ponti proprio verso nuove visioni del mondo, nuove
abitazioni, nuovi mestieri… Getta ponti verso l’altro da noi. Per dirla con
Marc Augé, ed in certo senso con Stefano Mancuso ed Emanuele Coccia, mai come
oggi l’uomo – liquefatto dentro una società che lo usa come mero consumatore e
lo destabilizza come persona – ha necessità di luoghi, siano la città siano la
casa, per ritrovare se stesso, gli altri, il proprio tempo, la propria
identità. Utopie? Già John
Lennon cantò “You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one”. Così
come quei sistemi socioeconomici che viceversa non ne terranno conto
accelereranno il rovinoso andamento del tempo presente. Anche a noi spetta la
scelta.
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