Il vino della Valbrevenna
La Valbrevenna è una stretta e angusta valle, laterale alla più nota Valle Scrivia. Ad essa si accede dalla frazione di Avosso nel Comune di Casella, in provincia di Genova, e corre in direzione ovest-est per circa 30 km fino alle pendici del monte Antola, vetta che sfiora i 1.600 metri e che dà il nome all’omonimo Parco Regionale. È una valle “antica”, i cui paesi, alcuni dei quali ormai abbandonati, sembrano come sospesi nel tempo. Visitandola si ha la sensazione che la vita contadina coi ritmi legati alle stagioni, l’allevamento del bestiame, le feste di paese…, tutto si sia fermato un attimo prima del nostro arrivo. Personalmente la conosco molto bene, da bambino salivo all’Antola da Piancassina facendo scorpacciate di more lungo il sentiero, da giovane la giravo in lungo e in largo su una bici da corsa, su e giù da un paese all’altro per giornate intere. Oggi ripercorro i suoi numerosi sentieri con la mia famiglia, è un luogo del cuore. Qui c’è poco traffico, senti i profumi e i suoni della natura, senti il silenzio, che racconta storie. Una di queste, tanto sconosciuta quanto affascinante, e che ho scoperto recentemente, è narrata con maestrìa nel libro “Vino dei nostri monti” di P.Brassesco e M.V.Pastorino - SAGEP Editori 2017 che voglio portare all’attenzione dei lettori di BioVoci.
Questa storia peraltro non sarebbe mai esistita se solo l’orientamento geomorfologico della valle fosse stato diverso da quel “corre in direzione ovest-est” che avete letto all’inizio. Tale posizionamento infatti ha permesso un versante molto più soleggiato dell’altro, così che, già dalle prime ore del mattino e fino a sera, il sole potesse inondare di luce e calore le numerose “fasce” di terra, ottenute grazie alla costruzione di innumerevoli muretti a secco, dal basso dei versanti salendo fin dove le pendenze diventano impossibili, fin dove lo sforzo costruttivo restituirebbe solo pochi metri quadrati di terra coltivabile. Solo così è stato possibile nel corso dei secoli, su questi ripidi versanti, ritagliare stretti e lunghi lembi di terreno coltivabile, proprio come è avvenuto alle Cinque Terre. Ma torniamo al calore del sole, che proteggeva le piante dalle gelate tardive, frequenti in questa valle, e inoltre scaldava le “scaggie”, le innumerevoli pietre calcaree presenti nel terreno, capaci la notte di cedere lentamente il calore accumulato di giorno, a beneficio delle radici delle piante.
Non si poteva sperare di meglio per dare il via alla viticoltura, considerando anche la massima esposizione al sole in estate-autunno, fondamentale per migliorare la maturazione ed incrementare il tenore zuccherino dell’uva. Le prime testimonianze scritte di una presenza della viticoltura si devono a documenti ed atti notarili risalenti alla metà del 1700 in diverse località della valle, ma soprattutto nella parte centrale e bassa, tra Carsassina e Scapitola. È possibile quindi ipotizzare che i primi tentativi siano stati avviati all’inizio del secolo e siano stati consolidati per alcuni decenni, in particolare sui terrazzamenti più bassi e meglio esposti. Un insieme di condizioni favorevoli, quali l’esposizione, l’altitudine (dai 450 ai 900 metri), i muretti a secco stessi che offrivano naturale riparo dalle fredde nebbie della “lombarda” e dai gelidi venti invernali di tramontana che scendevano dall’Antola, la terra ricca di pietre che scaldandosi di giorno cede il calore di notte favorendo un corretto e profondo sviluppo radicale, dettero risultati incoraggianti.
Così la vite, che predilige terreni arieggiati, drenati e profondi, meglio se calcarei ad impasto medio, trovò inaspettatamente il suo habitat sui versanti soleggiati della Valbrevenna... Le voci correvano oltre la valle stessa, e ci sono ipotesi fondate, basate via via su censimenti successivi da parte della parrocchia, che sia avvenuta una specifica evoluzione storica degli insediamenti interessati dalla coltivazione della vigna nell’area vinicola principale, con nuclei abitativi meno antichi (quali Carsassina, Cerreta, Casottino, La Ca’) sorti proprio in concomitanza dello sviluppo dell’attività di viticoltura. Fu così che si sviluppò un’attività contadina molto specializzata, con conseguente modificazione antropica del paesaggio, molto suggestiva.
La produzione inizialmente fu di tipo familiare, ma successivamente la viticoltura si diffuse anche in altre zone della valle e ad altitudini maggiori (ad esempio nei paesi di Clavarezza, Porcile, Chiappa, Aia Vecchia, Casareggio) e i volumi aumentarono parecchio, così da permettere che il vino venisse anche venduto, principalmente alle osterie della valle: le molte testimonianze riportate nel libro, assai coerenti tra loro, narrano che il vino non bastava mai perché si svolgevano tante feste e prima del 1940 nella valle operavano ben 27 osterie! Insomma, c’era tanta povertà e si lavorava duramente, ma c’era anche il tempo del divertimento e della socialità, forse più e meglio di oggi. La principale uva che veniva coltivata era il cosiddetto “nebbieu da u ràppu rùssu” (nebbiolo dal grappolo rosso), ma anche uva bianca e moscatella. Molto interessanti anche le testimonianze su come veniva prodotto il vino.
Fu questo l’apice che riuscirono a raggiungere i contadini della Valbrevenna diventati viticoltori, i quali pur senza conoscenze specificatamente scientifiche produssero però un buon vino, gradevole. Purtroppo dal secondo dopoguerra in poi, contestualmente allo spopolamento delle campagne, tutto andò perduto. Ma come fu possibile, si chiedono gli autori del libro, che questi contadini, partendo da zero, riuscissero ad acquisire, nell’arco di due-tre generazioni, competenze tanto specifiche da introdurre certi uvaggi piuttosto che altri, da controllare le patologie vegetali, e da acquisire sicure tecniche di coltivazione? E inoltre, è ancora possibile tipizzare e forse recuperare questi vitigni che costituivano il patrimonio dei diversi uvaggi tipici della Valbrevenna, unica realtà della Valle Scrivia ad aver raggiunto certi risultati? Lascio a voi leggere nel libro le conclusioni dell’enologo e quale fosse, in realtà, dopo ricerche e studi approfonditi, la cultivar autoctona della Valbrevenna, che non era nebbiolo; certo è che questa viticoltura eroica portava con sé un patrimonio di storia e di cultura che costituiva l’identità del territorio, e che di fronte ad una viticoltura sempre più standardizzata ed industrializzata, e forse all’assenza di figure leader capaci di evolvere le realtà produttive evitando lo spopolamento delle campagne, non seppe sopravvivere.
Ma forse non tutto è perduto, io e Umberto Curti, l’ideatore con Luisa Puppo di BioVoci (link qui), stiamo percorrendo varie strade nel tentativo di divulgare le antiche tradizioni e cultivar della Valbrevenna e della Valle Scrivia, perché raccontare è sensibilizzare, tutelare, promuovere…, stay tuned, vi terremo aggiornati!
Riccardo Poggio, Guida Ambientale Escursionistica
Ottimo lavoro, veramente interessante.
RispondiEliminaUna storia a me sconosciuta che testimonia quanta ricchezza di vita ha percorso e percorre le valli liguri.
RispondiEliminaDavvero una testimonianza che stimola curiosità. Bravo!